Di Francesco Alò

Giuseppe Gagliardi, classe 1977, ha realizzato con soli due lungometraggi alle spalle (La vera leggenda di Tony Vilar e Tatanka) un’impresa epica. Lui e il suo formidabile team di sceneggiatori composto da Stefano Sardo, Ludovica Rampoldi e Alessandro Fabbri, hanno messo in piedi una fiction per niente banale come 1992 per la produzione di Wildside, Sky Atlantic e La7. Dieci episodi per raccontare un anno fatidico per i destini politici italiani. Cast molto interessante composto da Stefano Accorsi (tra gli autori del soggetto), Domenico Diele, Guido Caprino, Miriam Leone, Tea Falco e Antonio Gerardi nei panni di Antonio Di Pietro. Abbiamo incontrato Gagliardi e ci siamo gettati con lui in ricordi e riflessioni circa una serie che ha fatto discutere e che, se tutto va bene, presto tornerà con la sua attesissima seconda stagione.

A mente più fredda quali sono le cose che vorresti aver fatto meglio?
Non ci sono cose che vorrei aver fatto in modo diverso. Posso dire… ora c’è un’attenzione internazionale sull’Italia e sulle serie italiane. Allora… se si deve competere con House of Cards o True Detective, dobbiamo avere un approccio a livello di impianto produttivo più preciso. La Wildside ha fatto un lavoro straordinario permettendo a me e a tutti di lavorare in modo bello e sereno avendo la possibilità di accedere a location importanti. Dovremmo però prenderci più tempo, costruire meglio ogni singola puntata e tutto ciò ci potrebbe catapultare ancora più alla grande sul mercato internazionale.

La cosa di cui sei più soddisfatto come regista?
La nostra era una scommessa. Per nostra intendo quella mia e dei bravissimi sceneggiatori Ludovica Rampoldi, Alessandro Fabbri, Stefano Sardo e il produttore Lorenzo Mieli. Era una scommessa. La prima volta in cui si immaginava uno stile nuovo rispetto alla serialità italiana con l’ambizione di inventarsi un’epoca. La sfida è stata vinta. Lasciamo da parte la modestia. Penso che abbiamo creato un prodotto che ha grandi innovazioni sia a livello narrativo che di messa in scena… molto corsara. L’operazione è riuscita. Nuova è la possibilità di avere un approccio laico che non prende posizione sui buoni e sui cattivi e cerca di raccontare dei fatti delle vite di alcune persone senza indicare allo spettatore chi è il buono, chi è il cattivo, chi ha vinto e chi ha perso. La cosa di cui sono più soddisfatto è la possibilità di fare qualcosa che non era mai stato fatto. Vedersi riconosciuta questa identità al Festival di Berlino e attraverso le decine di vendite nei principali mercati stranieri è stato molto bello.

Il momento in cui ti sei esaltato di più?
Il momento in cui mi sono esaltato di più? Io di solito non mi esalto molto. La cosa che ha portato bene al progetto è stata la possibilità di creare sul set, con la partecipazione attiva del team formidabile di sceneggiatori, alcuni cambiamenti in corso d’opera a seconda se un personaggio stesse funzionando di più o di meno. Forse la cosa di cui sono più soddisfatto è stato il risultato del cortocircuito tra realtà e finzione. Le cose davvero interessanti rispetto a una ricostruzione di un modo ben storicizzato… erano quei momenti in cui i personaggi reali come Giovanni Rana o Massimo Boldi, il quale nel 1992 presentava davvero le convention di Publitalia, entravano realmente nelle inquadrature. Direi che le cose più esaltanti per me sono state quando l’anno 1992 riusciva ad entrare davvero nella serie perché dava la temperatura di quello che stavamo facendo. E’ stata una produzione che è durata molte settimane. Effettivamente ne sono successe di cose.

Il momento più divertente?
A Varese, quando abbiamo girato nella roccaforte della Lega Nord. Erano le 2 di notte e agli ultimi ciak arriva un gruppo di attivisti del Movimento 5 Stelle che pensa da lontano che il nostro fosse un vero comizio della Lega Nord. Parte quindi una contestazione con urla varie per contestare ai leghisti il fatto che loro, i grillini, fossero ora la vera novità in campo politico e che quindi non era più tempo della Lega Nord. Mi piaceva sempre molto quando si creava questa confusione tra Storia, presente, realtà e finzione.

Peraltro è impressionante rivedere nella serie l’arrivo dei leghisti a Roma nel 1992 come corpi estranei alla politica italiana e ripensare che nel 2013 è successa la stessa identica cosa con il M5S…
Certo, certo. Peraltro quello sembra proprio un presagio perché la scrittura della serie è accaduta nel 2010-2011 per cui non c’era stato all’epoca il boom elettorale 2013 del M5S. Quello è un altro aspetto conturbante di quello che è venuto fuori dopo.

E’ stato facile convincere Boldi a fare quel cameo?
Hanno tutti accettato molto felicemente. L’operazione non è solo sullo schermo. 1992 ha coinvolto moltissime persone e molti sono entrati nello spirito di: “Facciamo una cosa che racconti l’Italia”. Tutte le partecipazioni speciali erano, diciamo, totalmente entusiaste.

E’ la prima volta che la nostra generazione di nati negli anni ’70 ha la possibilità di raccontare la Storia d’Italia e nello specifico l’apertura di un ventennio che ci avrebbe riguardato molto da vicino. E’ la prima volta che la nostra generazione fa quello che fecero quelli nati nei ’50 ovvero la cosiddetta Meglio Gioventù. Mi riferisco a Marco Tullio Giordana e Angelo Barbagallo quando realizzarono appunto La Meglio Gioventù nel 2003. Sei d’accordo?
Assolutamente sì. E torno a ribadire, però, lo sguardo diverso. Io avevo 15 anni nel 1992 e con Ludovica e Alessandro siamo praticamente coetanei. In un caso c’è una leggera differenza…

Stefano Sardo è più grande, no?
Sì, Stefano è leggermente più grande. E’ del ’72. La possibilità di raccontare un’epoca che si è vissuta anche solo da adolescenti è la differenza principale tra noi e quelli della Meglio Gioventù. Noi non abbiamo cercato di creare atmosfere pruriginose o di raccontare dal nostro punto di vista quello che abbiamo vissuto. Il nostro lavoro ha cercato invece di dire allo spettatore: “Perché dobbiamo sempre cercare di vedere le cose dal nostro punto di vista?”. Perché non possiamo adottare il punto di vista di chi ha vissuto quell’epoca? Questo ha causato delle conseguenze anche se vuoi criticabili. Ma se uno si mette nei panni di un leghista che arriva per la prima volta in Parlamento nel 1992, il risvolto narrativo ed emotivo che riceve lo spettatore è completamente diverso rispetto al mio punto di vista. E questo è stato molto importante per noi.

Il punto di riferimento del Leo Notte di Stefano Accorsi era Richard Gere in American Gigolò?
Solo in una scena. All’inizio dell’episodio 4 quando lui sceglie le camicie da indossare. La scenografia ha voluto creare l’omaggio per quell’angolino dove le camicie hanno una gradazione di colore come dire minima e sono tutte in fila insieme a cravatte e oggetti. L’omaggio per me è solo in quella scena.

Beh… anche il fatto che si alleni in casa da solo e abbia il culto del luogo privato dove poter coltivare il suo narcisismo… è molto da American Gigolò non trovi?
Leo Notte è un figlio dell’edonismo reaganiano. Quella cultura lì è permeata del mito del sogno americano anni ’80. La Milano da bere era figlia di quell’idea che gli Stati Uniti avevano imposto negli anni ’80. Ecco ti do una chicca: quella è un’idea di Stefano Accorsi. Quella veramente…

Ma sei sarcastico?
Ma no, dai, sto scherzando. Sto giocando sul fatto che c’è stato un esilarante trend topic: “Da un’idea di” e in quel caso lì volevo fare giustizia e dire che quell’idea su Leo Notte era veramente di Stefano. Il personaggio che ha costruito Stefano è davvero molto farina del suo sacco. La linea di Leo è stata scritta quasi interamente da Ludovica Rampoldi ed è, come dire, una linea narrativa che funziona molto, che appassiona molto. Molti si sono identificati in Leo. Il lavoro sul personaggio fatto da Accorsi è stato molto giusto e molto preciso. Ha trovato sfumature interessanti e penso che Stefano abbia dimostrato veramente una grande maturità artistica. Possono piacere alcuni attori e altri meno e anche il loro privato spesso viene messo in mezzo. Il fatto che poi Sky abbia insistito per questa storia di “Da un’idea di Stefano Accorsi” ha scatenato questo meccanismo sui social media anche ironico. Ma Stefano io trovo che sia stato pazzesco.

Sono d’accordo. Accorsi è superlativo. Qual è invece il personaggio nei confronti del quale ti sei identificato di più te?
Io? Nessuno. Quello che ho cercato di fare è stato poter pensare a un modo di poterli spiare e seguire. L’idea era quella di usare molte quinte, molte nuche e cercare degli spiragli dove infilare la camera. Mi piaceva. Era un’idea registica se vuoi anche molto basica ma anche impegnativa. Ci sono alcuni momenti in cui a livello visivo si può faticare un po’. Ma stare così addosso ai personaggi ha dato un segno distintivo alla serie. Volevo far sentire i personaggi respirare. Per poter giocare sui muscoli facciali e dare allo spettatore in alcuni momenti centrali la possibilità di rispecchiarsi nei loro occhi e dire: “Ecco cosa sta provando”. Questa intuizione ha permesso sia ai fan che ai detrattori di dire: “Non riesco a staccarmi da questa serie”. Questo è il giudizio che mi lusinga di più.

Per un regista è il massimo no?
Il massimo. Si raccontavano gli anni ’90, che sono pochissimo tempo fa, e non si raccontava dal punto di vista dei magistrati o degli imprenditori o dei santi o dei salvatori della patria o dei politici ma attraverso gli occhi di uno della periferia di Milano che andava alle feste a Brescia. Voglio dire… tutta l’operazione era rischiosa e quindi leggere: “Anche se odio questa serie non riesco a staccarle gli occhi di dosso”, significa che siamo riusciti a costruire una cosa che era partita scritta su un pezzo di carta ed è arrivata allo spettatore.

Quello di 1992 che è molto bello e che sembra proprio da serie tv americana, penso soprattutto a Breaking Bad, è stato il fatto di lanciare, o meglio rilanciare, un attore dandogli la possibilità di esplodere con un lavoro sul suo corpo mai fatto prima. Il nome è uno e uno solo: Guido Caprino ovvero il leghista Pietro Bosco. Raccontami: come è andata questa folle avventura?
Caprino ha preso la grande esperienza che ha fatto negli ultimi 10 anni e per la prima volta gli è stato dato un personaggio che lui avrebbe potuto capire e costruire da solo. La sua esperienza lo ha portato a diventare tutt’uno con Pietro Bosco. Il grandissimo lavoro sull’animale Pietro Bosco e sull’accento milanese nonostante lui sia siciliano… è stato impressionante. Il merito di questo incredibile personaggio va a due persone. A Caprino stesso che è riuscito a trovarne l’anima e a dargli delle sfumature inaspettate anche per noi che stavamo al monitor e a Stefano Sardo che è riuscito a costruire questa linea narrativa che è la più empatica, secondo me, di tutta la serie perché porta sempre lo spettatore a capire quello che sta vivendo il personaggio.

Come è andata precisamente con Guido?
E’ successo che noi per mesi abbiamo cercato un attore del nord trentenne che fosse più giovane per poter essere credibile come uno appena tornato dalla Guerra del Golfo. Non lo trovavamo. Abbiamo cercato poi allora tra gli sportivi e tra i rugbisti della Brianza… ma niente nemmeno lì. Alla fine abbiamo detto: “Freghiamocene dell’età anagrafica”. Guido aveva appena fatto con Wildside In Treatment e quello che ci chiedevamo era: “Come facciamo a prendere un ex modello alto due metri e bello come il sole e lo rendiamo uno sfigato orso della periferia milanese?”. E’ intervenuta a quel punto l’idea dello stravolgimento del look. Nessuno sul set ha pensato che quello fosse Il Commissario Manara. Era divertente perché Guido sul set si arrabbiava molto quando gli citavano l’aspetto perché per lui c’entrava molto di più l’interiorità di Bosco che doveva cercare molto di più rispetto al suo aspetto fisico. Quello che interessava a me, che lavoro con l’immagine, era che mia cugina, fan scatenata di Caprino Commissario Manara, non dovesse riconoscerlo e soprattutto non dovesse trovarlo piacevole. Quando mia cugina ha visto Pietro Bosco e l’ha trovato brutto… ho capito che eravamo stati bravi. Bisognava buttar giù l’immagine del commissario aitante in una serie vista da milioni di persone su Rai 1 e renderlo irriconoscibile ai suoi fan. Tutto il resto nasce dall’enorme varietà di emozioni e facce e sfumature che è riuscito a dare Guido a Pietro Bosco. Ci sono dei suoi momenti recitativi assolutamente sorprendenti.

In che senso?
Nel senso che ti accorgi a una sesta o settima visione che Caprino ha lavorato su dei registri emotivi completamente suoi.

Quando sono frustrato da come vengono utilizzati gli attori nei film o nelle serie tv e mi lamento anche con loro, loro mi rispondono piccati che è colpa dei registi e delle produzioni che non li spingono mai a superarsi e a cambiare. Ma allora, secondo te, dov’è la verità?
Situazione complessa. Parte tutto da un meccanismo di cinema e tv nel quale la “palette” di colori è sempre quella. E’ anche facile buttare fango. Certo è che però ci sono dei chiari segnali che qualcosa sta cambiando. Io ho fiducia. Tre film in Concorso a Cannes, belle serie tv, bei film. Sta succedendo qualcosa per me. E’ un buon momento per poter dire: “Prendiamo questo attore e facciamogli fare una roba per cui non è mai stato chiamato!”. I segnali positivi ci sono. Il fatto che Caprino, dopo 1992, abbia un grossissimo ruolo per il prossimo film di Bellocchio è molto incoraggiante. In realtà, ti do un’altra chicca, è una specie di ritorno a Bellocchio perché Guido era giovanissimo nella sua prima prova su grande schermo Il Regista di Matrimoni (2006) e da quel film lì è stato protagonista di una continua crescita.

Siete stati liberissimi di rischiare così con Caprino, ma penso anche a Miriam Leone, oppure ogni tanto arrivavano dei problemi e dei veti?
Siamo sempre stati appoggiati. Lavorare con Lorenzo Mieli è molto esaltante. Lorenzo ha diversi progetti in piedi ma riesce ad affidarsi al team in cui crede. Era un enorme rischio prendere un regista come me, con una carriera così piccola, e un team di sceneggiatori così giovani, seppur già così esperti e bravi. In fondo erano esordienti come me. La possibilità di dire: “Vediamo che hanno da dire” è un enorme regalo. E’ come se Mieli avesse pensato: “Ci sono queste quattro persone. Vogliono dire e fare qualcosa. Lasciamoglielo fare”. E quindi ci siamo permessi anche qualche azzardo, qualche richiesta di location particolare. La serie è costata meno rispetto a prodotti d’oltreoceano ma comunque è costata non poco per i canoni italiani. Abbiamo fatto un lavoro molto preciso sugli ambienti, location, corrispondenza diretta tra scenografie e costumi. La produzione ha dovuto sostenere una serie di richieste molto precise che andavano in direzioni precise. E non si è mai tirata indietro. Il difetto della nostra industria è proprio questo. Spesso se serve una location come Montecarlo che dia allo spettatore l’idea chiara che tu hai in mente… devi andare a Montecarlo e non a Frosinone. E’ ovvio che questo ha un costo e una gestione diversa. Se ci si affidasse di più ai gruppi creativi e avere fiducia che qualche richiesta esosa invece abbia un senso per avere un appeal anche più internazionale, sarebbe meglio per tutti. Questo è un piccolo difetto che va risolto.

Una delle tante cose affascinanti di 1992 è che avete proposto con i bravissimi sceneggiatori una linea diversa da quello che ci hanno detto in tutti questi anni. La vostra idea è stata: non è Dell’Utri l’ideatore di Forza Italia ma già un Silvio Berlusconi underground che intercetta questo nichilista di nome Leo Notte che per primo capisce la vertigine, l’estremismo, lo stato di eccitazione costante in cui gli italiani sembrano voler vivere e che sarà il preludio all’idea di Forza Italia e ai prossimi 20 anni. Vogliamo parlarne un attimo?
Parliamone. Quello che dici è molto interessante. Quando si scrive un film, o una serie, si devono creare dei personaggi che possano esprimere dei concetti. 1992 è un’operazione fica perché tutti noi sappiamo come è andata a finire e possiamo viverci quei momenti embrionali del ventennio successivo già sapendo il finale. Nel caso di Dell’Utri la faccenda era molto complicata perché è vero che Forza Italia nasce ufficialmente nel 1993. Quello che è certo è che nel 1992 decine di testimoniane dirette e indirette dicono che Dell’Utri ha fatto degli incontri di un certo tipo per capire dove stesse andando il paese e come l’azienda potesse muoversi in un nuovo contesto figlio di Tangentopoli e di quelle strane elezioni con l’exploit leghista. E’ certo che ci siano stati incontri con Martinazzoli, con Formentini della Lega Nord, con Mario Segni che con i referendum aveva ottenuto moltissimi consensi. Era lampante che un grosso gruppo imprenditoriale cercasse di capire cosa stesse accadendo all’Italia. Leo Notte è ispirato a nessuno di quegli uomini presenti in quegli incontri ma l’idea di trovarci in quel 1992 ci ha dato la possibilità di creare una sorta di italiano del futuro. Leo Notte è l’iniziatore di un certo tipo di essere italiano e quindi se vuoi l’intuizione di poter mettere in bocca a lui alcune frasi che poi abbiamo imparato a conoscere è vincente… perché poi sappiamo bene come è andata a finire.

Però insisto… 1992 propone che Berlusconi fosse più avanti di Dell’Utri nell’ideazione di Forza Italia e nella decisione del suo intervento politico…
Certo. Questo è vero. Tutta la linea di Notte è ispirata a delle inchieste giornalistiche molto accurate e precise. Uno dei nostri consulenti rispetto a quella vicenda era questo Ezio Cartotto, il quale era un politico della Dc lombarda. Qualche giorno fa ho visto un articolo in cui diceva a caratteri cubitali: “Leo Notte sono io”. In realtà Cartotto fu chiamato da Pubblitalia per mettere su questo centro studi che avrebbe dovuto capire la direzione che stava prendendo la politica in Italia. La certezza è che sin dagli inizi del 1992 le convention di Publitalia erano attraversate da grande entusiasmo. Berlusconi arrivava a una convention con clienti vecchi e nuovi e non si parlava mai di marketing o prodotti editoriali o commerciali. Si parlava della possibilità di un paese nuovo. E questo accadeva anche solo qualche mese prima dello scoppio di Mani Pulite. Va dato atto a Berlusconi di aver avuto una visione. Lasciamo stare il giudizio per un attimo… ma aveva una visione. Questo è indubbio e risponde alla tua domanda. E’ vero: Berlusconi è stato uno che ha saputo vedere dove stava andando il paese. Poi quello che è successo dopo… è inutile parlarne anche perché se ne è parlato fin troppo.

Quel disegno che nella fantasia Andrea Pazienza dedica a Leo e Bianca… che bella idea…
Nessuno l’ha notato…

Come è stato possibile? Avete avuto un ok dalla famiglia Pazienza per usare il suo nome?

Ogni cosa che entra dentro l’inquadratura ha avuto il bisogno dell’ok da parte degli aventi diritto. E’ stato un lavoro massacrante. C’è il finto disegno di Paz, i quadri di Fontana, una serie di oggetti di arredamento, decine e decine di cose che hanno richiesto l’autorizzazione per liberare i diritti per l’utilizzazione. Come il materiale di repertorio o la possibilità di usare davvero il brand Corriere della Sera e non fantomatici Gazzettini del Nord come ogni tanto si vede al cinema o in tv.

Scusa se torno sull’argomento ma sono curioso di sapere se vi rendete conto, ora che è tutto finito e finito pure bene, che tu, Ludovica Rampoldi, Alessandro Fabbri e Stefano Sardo siate stati i primi della nostra generazione a raccontare in un prodotto audiovisivo popolare gli anni che hanno profondamente segnato la nostra generazione. Ne siete consci?
Certamente.

C’è qualche soddisfazione generazione che ti sei/vi siete tolti rispetto a qualcuno di altre generazioni che magari vi aspettava al varco per impallinarvi?
Devo ammettere che io dopo la presentazione al Festival di Berlino e poi conseguente trasmissione in tv dei primi episodi… mi sono gettato a capofitto in una nuova avventura professionale per cui ho seguito poco il dibattito su giornali, tv e social. Mi ricordo però che mentre stavo a Berlino per la presentazione dei primi due episodi… mi resi conto che la stampa italiana… posso essere sincero?

Certo…
Secondo me molti erano pronti a una stroncatura terrificante e netta per la delicatezza dell’argomento. Questo nostro approccio completamente nuovo… secondo me li ha spiazzati. Lì, in quel momento a Berlino, sembrava che i giornalisti presenti non avessero gli strumenti o per attaccare o per controbattere. La serie si chiede: “Cosa è successo a 4 italiani nel 1992?”. Poi c’è la Storia con la S maiuscola. I giornalisti quel giorno… erano molto spiazzati. Poi dopo si è scatenato il putiferio mediatico. Dai grandi giornali alle riviste più settoriali. La serie ha sollevato un interesse in diversi strati sociali del paese. Finalmente si può parlare anche di storia recente e si può dire di tutto. Personalmente, in quanto calabrese, sono stato coinvolto nella querelle riguardante Giacomo Mancini, ex segretario PSI e figura di spicco del Partito Socialista. Abbiamo scelto di raccontare il colloquio tra lui e Di Pietro trovando un escamotage attraverso un articolo mai pubblicato sul Corsera che immagina Mancini con un punto di domanda: “Giacomo Mancini: ideatore del sistema tangenti?”. Quell’escamotage narrativo ci serviva affinché il NOSTRO Giacomo Mancini si presentasse davanti a Di Pietro a parlare della faccenda di Craxi. In quel caso lì, mi hanno attaccato sterilmente. Allora: è vero che Giacomo Mancini parlò con Di Pietro spontaneamente e in quel colloquio venne fuori che Craxi non poteva non sapere delle tangenti. Questi sono i fatti. Questa è la Storia. Se poi la serie ha utilizzato degli escamotage narrativi per poter arrivare a raccontare dei fatti storici… beh… avviene sempre. In Letteratura da 2000 anni e avviene da sempre nel cinema americano. Molti di questi attacchi che abbiamo ricevuto… sono figli del fatto che si sta parlando di noi. Si sta parlando dell’Italia degli ultimi 20 anni ed è inevitabile.

E anche questo denota la qualità di 1992. Senti… un cameo che vi è sfuggito e di cui rimpiangi l’assenza in 1992?
Sì. Uno c’è. Abbiamo commesso un grave errore per via di una scena tagliata… 1992 è l’anno dell’exploit di Fiorello e noi avevamo una scena, mi pare nel nono episodio, in cui uno del gruppo di Di Pietro si liberava finalmente e cantava a squarciagola al karaoke in un locale milanese Hanno ucciso l’uomo ragno. Il fatto di aver tagliato quella scena e non aver reso omaggio a Fiorello… quella è stata una svista grossa. Voglio dire proprio qui in questa intervista… scusaci Fiorello!

Geniale la chiusa su quello che per alcuni è ancora un mistero ovvero i manifesti “Fozza, Itaja” che io mi ricordo benissimo a Roma con la i al posto della j. Voi che idea vi siete fatti su quella storia?
La verità che ci è stata detta come sai è che quei manifesti fossero una roba che non c’entrava niente con Forza Italia. Non abbiamo avuto l’autorizzazione ad utilizzare quelli originali perché gli autori sostengono che non c’entrava niente, appunto, con quello che è successo dopo. I nostri bravissimi sceneggiatori hanno avuto la possibilità di attingere dall’immaginario e di metterlo in un contesto narrativo più ampio. Secondo noi… era un bel finale.

E’ un gran finale. Ma dimmi che… non è un finale. Come stiamo messi con 1993? Vi rivogliamo tutti insieme…
I rumors sono molto positivi. Gli sceneggiatori hanno già finito e consegnato il soggetto di stagione.

Se tutto dovesse concludersi felicemente come sembra… lo dirigerai te?
Posso solo rispondere: lo spero.