Uomini come carboncini, destinati a schiantarsi e disgregarsi sulle pagine della Storia trasformandosi in cenere, in una delle migliori opening di sempre. Quella di The Pacific, seconda parte ideale del dittico bellico realizzato per la HBO da Steven Spielberg e Tom Hanks. Nove anni dopo il trionfo di Band of Brothers, nel 2010 giunge un nuovo affresco corale ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale, più precisamente nel teatro del Pacifico, con il racconto dell’offensiva degli Stati Uniti contro il Giappone. Orfano del contributo di Stephen Ambrose, buona parte del team produttivo alle spalle del capolavoro precedente torna per costruire in dieci episodi un’opera televisiva importante e imponente, un corollario narrativo e tematico più che degno rispetto ad un discorso iniziato circa un decennio prima.

Dicembre del 1941. L’attacco a Pearl Harbor estende a un livello ancora più globale la dimensione del conflitto. Gli Stati Uniti entrano in guerra contro le forze dell’Asse. Le parole rivolte alla I divisione marine nel primo episodio risuonano come una presentazione di ciò che verrà narrato: la fortezza Europa non interessa, i nazisti non sono importanti qui. Lo scopo degli Stati Uniti è quello di strappare isola dopo isola punti di appoggio ai giapponesi ormai alle porte dell’Australia. La serie segue le tappe salienti, perché più tragiche o perché più strategicamente importanti, dello scontro accumulando alle spalle annate intere e battaglie, momenti determinanti in cui risaltano luoghi come Guadalcanal, Pelielu, Iwo Jima.

Tutto questo, come per la compagnia Easy in Band of Brothers, viene veicolato attraverso le esperienze umane, sul campo di battaglia e fuori, di un nucleo di uomini. Spiccano su tutti Robert Leckie (James Badge Dale), soldato dal carattere sfuggente che riporterà le ferite fisiche e psicologiche del conflitto, Eugene Sledge (Joseph Mazzello), giovane ansioso di arruolarsi, inizialmente bloccato da un problema fisico, e John Basilone (John Seda), distintosi eroicamente in battaglia, usato come testimonial per vendere bond per la guerra e infine di nuovo sul campo. Lo sguardo dei tre basta ad accogliere scenari e suggestioni presentati dalla serie, ma non esaurisce il gruppo di protagonisti, ai quali vanno aggiunti almeno i soldati Sydney Phillips (Ashton Holmes), amico di Eugene, Merriel Shelton e Manuel Rodriguez (se non altro per sottolineare la presenza nel cast di Remi Malek e Jon Bernthal).

In ogni momento, e questo purtroppo ne limita l’apprezzamento, The Pacific vive all’ombra dell’illustre predecessore. E lo fa in modo non troppo diverso da come, almeno nella percezione comune, il fronte del Pacifico viene messo in secondo piano rispetto a quello Europeo quando si parla di Seconda Guerra Mondiale. Forse perché meno sentito, forse perché più lontano. La scrittura, su tutti quella di Bruce McKenna, procede allora ribaltando la prospettiva “esotica” che un’ambientazione di questo tipo potrebbe suggerire, prosciugando colore e meraviglia da ogni spazio, riducendo il tutto a polveroso e dannatamente concreto contenitore di morte. Le fa eco una fotografia che, sulla scia di Band of Brothers e, ancora prima, Salvate il soldato Ryan, lavora su colori desaturati suggerendo una visione “d’epoca”.

Non la pura e incontaminata natura che, quasi da una dimensione superiore, accompagnava i soldati in La sottile linea rossa, ma un semplice e concreto ostacolo di fronte alla prospettiva più umana, che rimane sempre centrale e superiore a qualunque altra. Solo un ulteriore motivo di frustrazione (per dirne una, la malaria) per chi già vive un’esperienza inumana. Facendo un confronto con lo scenario europeo, naturalmente si parla di due forme di orrore, ma per certi versi l’esperienza è ancora più disumanizzante, proprio perché quasi inafferrabile nella sua interezza. Una delle prime informazioni storiche che riceveremo dalle dichiarazioni che aprono gli episodi, è che gli stessi ufficiali che davano gli ordini non conoscevano bene il nome della destinazione (“Guadarcanar”).

E sarà emblematica, da un punto di vista narrativo e tematico, la conclusione della terrificante parentesi della battaglia di Pelialu, che occupa tutta la parte centrale della miniserie. Sapremo infatti solo alla fine che, nonostante tutti gli sforzi e i sacrifici per la conquista, il generale MacArthur non utilizzò mai quell’isola come avamposto strategico: la follia di una “battaglia dimenticata” all’interno di una follia più grande. La stessa idea di dover assaltare in continuazione nuove isole, facendosi strada uno sbarco dopo l’altro, senza potersi guardare indietro, mette a dura prova l’animo dei protagonisti, che sono sempre il centro di tutto. L’esperienza umana al di sopra delle motivazioni belliche o delle strategie, di atti eroici o vergognosi (che pure ci sono in entrambe le forme), di quell’immobilismo e vita quasi da trincea  in questo All’ovest niente di nuovo ambientato dall’altra parte del mondo.

Nel 2006 Clint Eastwood con il dittico Flags of Our Fathers e Letters from Iwo Jima ribaltava con semplicità la più classica prospettiva su un conflitto – che poi diventava esempio per qualunque conflitto – raccontandoci entrambi i punti di vista. The Pacific non si spinge fino a qui, ma è facile vedere che, piuttosto che sulle disuguaglianze nel conflitto tra nemici, si punta sul senso di aggregazione tra simili che partecipano ad una tragedia collettiva e ne condividono le ferite, da una parte e dall’altra. Tutti i percorsi, gli epiloghi tragici, verranno interrotti brutalmente dall’annuncio dello sgancio della bomba atomica, lasciando i sopravvissuti a convivere con i propri fantasmi in un episodio finale in cui l’unica vittoria palpabile consiste nell’essere tornati a casa.

La serie è basata sui testi “With the Old Breed: At Peleliu and Okinawa” e “China Marine” di Eugene Sledge, su “Helmet For My Pillow” di Robert Leckie e su “Red Blood, Black Sand” di Chuck Tatum. Per la sua realizzazione è stato quasi raddoppiato il budget di Band of Brothers, per circa 200 milioni di dollari, una cifra che la rende la più costosa miniserie di sempre.