Nel 1997 la HBO inizia a costruire le fondamenta del nuovo linguaggio televisivo. Lo fa tra le spoglie e fredde mura di un penitenziario che sorge in un luogo non meglio specificato, e proprio per questo dal valore ancora più assoluto, degli Stati Uniti. Alle radici della mitologia delle serie cable network, Oz è una pietra miliare del genere carcerario, la gemma sporca con la quale l’emittente inizia a sperimentare nuovi linguaggi per il medium. La serie ideata da Tom Fontana e andata in onda per sei stagioni, fino al 2003, affonda le mani nel tema della disgregazione sociale: storie di ordinario disagio, impegnate o semplicemente tragiche, per un racconto corale di altissimo valore.

Proprio per la sua natura collettiva, ribadita di episodio in episodio, è impossibile individuare un unico protagonista per la serie. Il pensiero corre a Tobias Beecher (Lee Tergesen), avvocato finito in carcere per aver investito una bambina da ubriaco. Di lui seguiremo il percorso umano, ma soprattutto lo scontro fortissimo con il capo degli “Ariani” Vernon Schillinger (J.K. Simmons) che proseguirà lungo tutte le stagioni con un’escalation senza limiti. Da citare anche Chris Keller (Christopher Meloni) e il suo rapporto con Beecher, ma anche i fratelli irlandesi Ryan e Cyril O’Reily (Dean Winters e Scott William Winters, realmente fratelli), il furioso Simon Adebisi (Adewale Akinnuoye-Agbaje), il musulmano e attivista Kareem Said (Eamonn Walker).

Basta il nome Oz, abbreviazione per Oswald State Penitentiary, ad evocare scenari lontani dalla realtà quotidiana. Come detto, non sappiamo esattamente dove ci troviamo. Quel che è certo è che “non siamo più in Kansas”. Oz è la prigione mentale, fisica, ma anche narrativa dalla quale è impossibile uscire. Dove altri show carcerari (Prison Break, Orange is the New Black) hanno affrontato con ben altra leggerezza il contesto, assicurandosi delle vie di fuga dall’ambientazione soffocante della prigione, Oz segue la strada opposta. Salvo qualche sporadico flash sulle motivazioni dell’incarcerazione dei personaggi, non abbandoniamo mai le mura della prigione, non vediamo mai la luce del sole, non sentiamo mai l’aria fresca sulla pelle. Non esiste ristoro, pace, conforto a Oz.

La dimensione tragica, in senso quasi deterministico, dell’opera risalta bene nei monologhi di Augustus Hill (Harold Perrineau). Lui è il cantore della storia, il carcerato sulla sedia a rotelle che interagisce con gli altri ma può anche rompere la quarta parete e rivolgersi a noi direttamente o tramite voice over. E non è un caso che l’ultimo episodio, intitolato Exeunt Omnes (formula per invitare gli attori a uscire di scena), richiama in modo esplicito la dimensione teatrale. Ed è sempre Augustus a raccontare, in modo ricorrente e atteso, i precedenti dei detenuti, compreso il numero di anni a cui sono condannati. Dato il grande senso di tragedia che permea l’opera, Oz si configura presto come un microcosmo dal quale non è possibile uscire, un inferno prima dell’inferno stesso, con Augustus a farci da guida narrandoci i peccatori dei gironi danteschi.

Ma non sono gironi, sono etnie, gruppi sociali, squallide aggregazioni d’individui violenti che si spalleggiano per sopraffare e per proteggersi, per definirsi come individui e per sopravvivere. Ne emerge un clima di guerra di tutti contro tutti in cui il bene non esiste e il percorso come individui non tende mai alla riabilitazione, ma solo al pentimento, se e quando questo arriverà. Si tratta di un’America estrema, già disgregata, non nella prigione di quartiere che sarebbe stata raccontata nell’altro capolavoro The Wire, ma confinata alla struttura penitenziaria. Dove la maggior parte delle opere carcerarie si pone dalla parte del detenuto (magari innocente), spesso contrapposto a guardie inflessibili e malvagie, Oz non offre appigli morali di alcun tipo. Non esiste alcun anelito di libertà dove la prigione è soprattutto mentale.

Oz è il primo drama da un’ora prodotto dalla HBO, un primato invidiabile, considerato il patrimonio televisivo che da esso sarebbe nato. Qui l’emittente inizia a strutturare un linguaggio televisivo più corposo e graffiante, che si pone obiettivi più alti e che chiede di più allo spettatore. Sacrifica qualcosa alla verosimiglianza delle situazioni in favore di un intreccio e di una coralità dal fascino immutato, salvo una certa flessione nelle ultime due stagioni. Il linguaggio visivo si fa più esplicito ed estremo e anche qui sfida ogni limite tramite scene di violenza, sesso e abusi di ogni genere. Forse è proprio questa, tra le tante, la grande rivoluzione di Oz: non è un documentario, non deve restituire qualcosa di realistico. Ha il grande fascino di una storia che basta a se stessa e che, grazie al suo valore intrinseco, può giustificare ogni limite oltrepassato.

Di lì a breve sarebbero arrivati I Soprano, The Wire e Six Feet Under. Il resto è storia, anzi lo è già qui.