Si potrebbe anche aver visto solo l’ultima puntata di questa prima stagione di I’m Dying Up Here e avere comunque una chiara visione di tutti i contrasti e i temi trattati dalla serie. In miniatura infatti Creative Indifferences ha riassunto per ogni personaggio tutto quello che questa prima stagione gli ha riservato, di fatto chiudendo ogni arco narrativo attraverso un altro arco narrativo, più piccolo, capace di nascere e morire in una sola puntata. Per ogni personaggio.

In questo senso si sente il ritorno della mano di Dave Flebotte, creatore della serie, che come gli showrunner di qualche decennio fa, tornato al volante, ha messo a posto i personaggi come se il lavoro degli altri episodi contasse meno. Non che sia semplice creare un episodio così, in cui ogni personaggio ha un suo arco e una sua avventura, ma di certo una chiusa simile non somiglia a quel che le serie moderne sono solite fare.

Al momento non è chiaro se I’m Dying Up Here avrà una seconda stagione, gli scrittori stanno preparando le possibili future trame da sottoporre al vaglio dei produttori, ma di certo sembra che Flebotte abbia fatto in modo che tutto possa terminare qua. I’m Dying Up Here finisce come un film, con i personaggi intenti a guardare ad un domani probabilmente migliore, a posto con alcune sfide che la serie gli aveva presentato ma con altrettante davanti a sé(più audaci e stimolanti).

Se queste parole vi sembrano eccessivamente smielate è perché è proprio così, con una patina di calza, che I’m Dying Up Here si chiude, con una musica coinvolgente (Dancing in the Moonlight nella versione originale dei King Harvest del 1973), i personaggi che cantano tutti insieme, di nuovo felici, uniti e soddisfatti, guardati da lontano con sguardo benigno da Goldie e con qualche ralenti generico a sfumare. Non propriamente un finale sofisticato, più un happy ending classico.

Si è dunque chiusa la trama più importante, quella delle donne alla riscossa. Il programma televisivo Girls Are Funny, Too si è rivelato la truffa che sembrava, le ragazze sono state usate solo per la loro avvenenza e, con ben poca sottigliezza, gli executive televisivi hanno detto ad una Cassie dubbiosa sul tempo lasciato alla sua stand up di pensare a sorridere che alle cose complicate ci pensano gli uomini. Goldie ha fatto una scenata e alla fine, terminato il programma, Cassie è tornata con la coda tra le gambe, consapevole che è lì, nel locale, che tutto forse potrà cambiare, che dalle proprie forze e dal basso che parte ogni rivoluzione.

Qui è emerso il primo problema atavico di questa serie: la mancanza di sfumature, la paura che il pubblico non capisca un sottotesto se questo non è sottolineato con forza.

È terminata anche la prima parte della trama riguardante la rivalità con il locale King Theodore, perché nonostante sembrasse in grado di strappare qualche comico a Goldie, questi sono rientrati tutti, consci del fatto che solo da lei sono trattati come meritano.  Anche Adam che infastidito e in cerca di un riflettore tutto per sé era scappato nel locale del suo nuovo manager ma, visto come tratta Ralph (“Se quando ti chiamo negro sembro bianco è perché a te lo dico come fossi bianco”), decide di ritornare ai veri valori di Goldie. In più Bill Hobbs, passato attraverso il dolore della perdita di un padre bastardo, si è guadagnato serata e divano da Carson (Goldie ha ottenuto per lui l’ingaggio nel tentativo di dimostrare a tutti che solo attraverso di lei si arriva al successo).

Bill, in tv, si è giocato la routine sul sesso tra animali che già gli avevamo sentito provare con successo da Goldie nei primi episodi. E qui abbiamo visto il secondo problema della serie: racconta di comici pieni di talento ma i loro numeri non fanno mai ridere davvero, né percepiamo l’evoluzione dei pezzi o l’affinarsi delle battute. Ad inizio stagione Bill aveva ricevuto uno spunto da Cassie a letto, uno divertente, ma non l’aveva davvero sistemato, non l’aveva affinato e quindi non lo usava, non sarebbe stato male vederlo usare proprio una versione migliore, più efficace, precisa e ripulita di quello spunto da Carson, un omaggio alla sua ex, un gesto d’amore per sé e un buon esempio di come una battuta passi dall’essere solo divertente a significativa.

Buon finale anche per i tre novellini. Adam è lanciatissimo (nonostante il carisma portato da RJ CYler nell’interpretarlo sia prossimo allo zero e renda implausibile che una persona così poco interessante risulti così divertente e di successo), è l’unico degli emergenti che i locali effettivamente si litigano. Ron ha ottenuto anche più spazio nella sitcom in cui ha trovato un piccolo ruolo (ed ormai ha una storia sentimentale stabile) e Eddie, impiegato come autore in una trasmissione radiofonica che non gli dà alcun credito, si è vendicato.

Infine Nick, passato attraverso il delirio della droga, sembra esserne uscito con fatica minima. Non abbiamo mai visto la devastazione nel volto o nel fisico (è sempre identico, ben vestito, in carne, pasciuto) ma ora è pronto a tornare alla stand up dura e pura portandovi dentro i suoi drammi, alimentandola con la propria anima e i propri demoni. Di nuovo, ci tocca fidarci di quel che dice la serie, perché se dovessimo stare a quel che appare o passa dalle immagini o dalla scrittura non si notano molte differenze tra il prima e il dopo, Nick non pare un tossico, né uno con problemi.

Se I’m Dying Up Here sarà davvero rinnovato dovrà senza dubbio lavorare molto di più sulla capacità di toccare i suoi temi di sponda e non tuffarcisi dentro ogni volta di testa. Gli episodi migliori sono stati quelli in cui ha messo in scena fatti e fattarelli dei personaggi, unendoli tematicamente con qualcosa di più grande di loro (La Battaglia dei Sessi dell’incontro di tennis Billy Jean King/Bobby Riggs in Sugar And Spice) o quando ha premuto su alcuni aspetti molto specifici e particolari della vita e della formazione di uno stand up comedian degli anni ‘70.

La sua serie “matrice”, quella da cui deriva il proprio genere e i propri obiettivi, ovvero Mad Men, era in grado sia di coinvolgere con le pubblicità create dai suoi geni (che apparivano davvero geniali e la loro lavorazione era costellata di momenti chiave che ne mostravano l’evoluzione e ne spiegavano la genialità) ma sapeva anche dare per scontata la ricostruzione storica, mai sottolineata nelle sue differenze con il presente, eppure sempre coerente. I’m Dying Up Here invece in ogni scena cerca di mettere in mostra la propria attenzione al dettaglio, il lavoro fatto per creare gli anni ‘70 e quanto questi fossero diversi da oggi. Risultando il più delle volte pedante.