Nome poco noto ma volto e carattere indimenticabili: il binomio perfetto dei grandi caratteristi. Adamo Dionisi appartiene a quella categoria di attori così intimamente legati dalla propria fisionomia ad un genere e così bravi a nascondersi proprio dietro quell’apparenza da sembrare presi dalla strada, un vero criminale, invece di un professionista che interpreta un personaggio.

Salito prima alla ribalta con il film Suburra e ora santificato dall’omonima serie con il ruolo di Manfredi Anacleti, fratello maggiore di Spadino e padre padrone della famiglia criminale sinti, per Adamo Dionisi in realtà questo è solo l’ultimo di molti ruoli. Non a caso sarà nel cast di Dogman, il prossimo film di Matteo Garrone (sulla terribile storia del canaro della Magliana), uno che gli attori li sceglie a partire dai fisici e dalle facce.

Personaggio bigger than life, Adamo Dionisi è un attore con un vissuto grande e grosso dietro di sé, qualcuno che, per usare le sue eufemistiche parole: “È uscito di casa ben prima di avere 25 anni, ha giocato a pallone per strada e ha dato e ricevuto pugni”, un bagaglio di esperienze che ritiene indispensabili per interpretare il gangster movie.

“Io ho una storia diversa da altri attori. Oggi tutti vogliono fare il gangster movie ma non è che tutti possono farlo. I gangster movie sono diversi dagli altri, bisogna conoscere tante cose. C’è tanta gente che ha la faccia da panettiere magari, da elettrauto… E se non ti chiami Favino, se non sei un Kim Rossi Stuart o un Elio Germano non ce la puoi fare a farli”.

Da cosa lo capisci che un attore non ha il vissuto adatto?

“Tu guardagli le mani quando hanno un’arma, ti rendi subito conto se uno lo può fare o no quel ruolo, se sa come metterle. Quelli meno adatti cambiano subito intenzione, diventano meno coraggiosi, spostano il corpo indietro… Ed è finita”.

E invece cosa è importante fare per essere così credibili da sembrare veri criminali?

“Ci sono un sacco di cose per cui i gangster movie sono particolari, è una nuova identità personale e se non hai un tuo equilibrio non riesci a tenere basso il ruolo. Io con la parte di Manfredi Anacleti potrei fare tutto ma non sarebbe utile, uno così devi tenerlo basso, non devi spingerlo altrimenti sei ridicolo. E se non hai un tuo equilibrio e non sai quale parte stai usando se quella deviante o quella sana, è finita.

Nella serie, diciamolo, tu interpreti Vittorio Casamonica, il presunto capo del più importante clan criminale del Lazio…

“Ecco, sempre co’ sti nomi. Lo voglio dire qua chiaramente: io non sono il signor Casamonica. Primo perché non ho avuto la fortuna di conoscerlo (se l’avessi avuta gli avrei chiesto tante cose sui cavalli), secondo perchè sono Adamo Dionisi che è diventato sinti. Quello faccio”.

E Francesco Acquaroli, il samurai, non è Carminati?

“È un po’ assurdo, si va sempre a finire a questi nomi. Io non sono Casamonica perché non ho studiato lui. Alla stessa maniera penso che il ruolo di Acquaroli non sia il signor Massimo Carminati, che purtroppo ora, per quanto se ne possa dire, sembra che non se po’ parlà de n’altra cosa! Ce stanno le maestre che picchiano i bambini ma se parla solo de Carminati! Non è perché io voglia dimostrare la mia condiscendenza con le organizzazioni criminali ma ci sono delle precise responsabilità che qualcuno si prenderà e ne pagherà le conseguenze, quindi non voglio continuare a parlare di questa cosa. A mio avviso Acquaroli si è ispirato ad una figura dello stesso spessore, e ha costruito un personaggio in questo modo. È un attore che cerca di agire come avrebbe agito quel personaggio”.

So che hai forti trascorsi di stadio e di tifoseria con la Lazio, ti sono serviti per Suburra?

“In curva ci sono stati dei responsabili dei gruppi di origine zingara in particolare per la Lazio per un periodo c’è stato un signore sinti, era proprio parte degli ultimi anni del movimento Ultras. Un film solo buono ci hanno fatto: Ultimo stadio, con Ivano De Matteo che non a caso è cresciuto sulle file della tifoseria laziale”.

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La comunità sinti l’avevi già studiata per Suburra il film suppongo, hai dovuto riapprofondire la loro frequentazione per la serie?

“Li avevo conosciuti ma lì ero stato meno libero di far “metodo” davvero. Invece in questo caso sono stato con loro tanto, ci ho parlato, ci ho mangiato, mi hanno invitato alle comunioni, alle nascite dei figli…”

Ma essendo di Roma li conoscevi già no?

“Un po’ sì, anche se sono nato e cresciuto al centro, dove queste famiglie non ci sono, però conoscevo già il loro modo di pensare, come agiscono e le intuizioni che hanno (sono intuizioni incredibili eh!). Ho un parente che fa pugilato e quindi ho frequentato quell’ambiente per un po’ e lì gli zingari sono sempre presenti. Sono dei bravissimi attori tutti, goliardici da morire. Poi certo hanno tutto un altro lato, che però sono fatti loro e che io non ho potuto constatare, perchè ci ho lavorato solo nel cinema”.

A Roma solitamente non sono molto amati. Te come li vedevi prima? E hai capito perché non sono amati?

“Io non ho mai avuto né un’opinione buona né una cattiva su di loro, sono un uomo senza pregiudizi. Ora che ci sono entrato in contatto aggiungo che sono simpatici per quel che li ho conosciuti. Poi è normale che tutti possono cambiare opinione nei loro confronti, magari vedono la serie e pensano: “Aho questi so’ proprio brutti!”.

Loro che rapporto hanno con te?

“Li ho frequentati per frequentarli e da quando ho iniziato la serie erano tuti i giorni con noi, non solo sul set. Io ho un vissuto con loro, i bimbi sono cresciuti, li tenevo in braccio che non camminavano e ora c’hanno tre anni. Insomma le loro famiglie un po’ le ho vissute e penso di averla capite bene e che loro capiscano me e quindi mi rispettino, poi sanno che ho un amore sviscerato per questo personaggio, Manfredi”.

E a loro piace questo ritratto duro, violento e criminale?

“A loro non importa di essere ritratti come criminali, poi considera che non tutti hanno una testa che pensa. Sono felici che io faccia questo boss cattivo che non sorride mai e maneggia pistole, dicono: “Guarda come ci fa apparire Adamo!”. Certo non sono tutti così eh…”

Giacomo Ferrara, Spadino, dice che i sinti che facevano da consulenti erano molto disponibili ma anche che ti fanno entrare nella loro cultura solo fino ad un certo punto, è vero?

“E sì certo! Noi siamo i “gaggè”. Per loro “gaggè” è chiunque non sia sinti, gli altri. Bisogna capire che hanno una storia stranissima, in tempi non sospetti arrivano dall’India, poi si spostano in Spagna, poi finiscono in centro Italia e da lì vanno dappertutto. Hanno una lingua che non è mai stata scritta, è solo fonetica e mischia dialetti italiani con qualche parola rubata allo spagnolo e al francese. Solo che per ogni parola hanno tre significati, è indecodificabile”.

Tu nella serie un po’ la parli la loro lingua, l’hai imparata?

“Impararla non si può, diciamo che ci comunico come una persona che parlotta l’inglese scolastico, conosco il significato delle parole ma considera che anche chi lo parla non lo conosce. Una parola la puoi dire in tre modi diversi a seconda del tempo, ma tempo inteso come clima”.

Ad esempio?

“Se io devo dire in casa mia di uccidere una persona dico “Racchennalo!”, se lo devo dire faccia a faccia dico “Marennalo!”, o se lo devo dire da lontano dico “Maralo!””.

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