Narcos riparte da capo, dal Messico, il 16 Novembre su Netflix.

Concluso il Narcos colombiano ora parte quello di Kiki Camarena, con una nuova prima stagione. Narcos: Messico è ambientato negli stessi anni dell’altro Narcos, solo altrove, a Guadalajara. Al centro ci sono Michael Peña e Diego Luna, uno è un poliziotto della neonata l’agenzia antidroga DEA (per l’appunto Kiki Camarena, personaggio realmente esistito), l’altro un ex poliziotto che ora vuole fare carriera nel cartello della droga e già nella prima puntata mostra idee rivoluzionarie e la capacità di metterle in pratica.

Ospiti di Lucca Comics i due attori non potrebbero essere più diversi, uno (Peña) è un messicano trapiantato in America, l’altro (Luna) è un messicano del Messico. Il primo non vuole parlare di politica (cosa stranissima per un attore americano), il secondo invece sguazza in tutti i temi attorno ai quali si muove questa nuova serie di Narcos. Peña mentre parla si sfila le scarpe come gesto nervoso, Luna invece ha un golf sulle spalle come un anziano.

Qual è la storia di Narcos: Messico?

DIEGO LUNA: È quella di come siamo finiti nel casino in cui viviamo adesso. Quelli che raccontiamo sono anni fondamentali da capire per il pubblico di oggi, perché aiutano a comprendere la relazione che esiste ora tra Messico e Stati Uniti.

MICHAEL PEÑA: Per me era importantissimo che fosse tutto nuovo. Quando Eric Newman mi ha proposto la serie, 3-4 anni fa, mi aveva attirato proprio perché si parlava di una nuova stagione 1, di far partire qualcosa di nuovo. Io consiglio a tutti persone di guardare almeno i primi 3 episodi.

Di cosa parliamo?

MP: Del fatto che il Messico non aveva bisogno di una presenza della DEA perché era un posto in cui la droga si vendeva e non si produceva, questo almeno prima dell’arrivo della marijuana potente e della cocaina, ma soprattutto prima della centralizzazione delle rotte del traffico. A quel punto è stata la polizia ad organizzare il commercio con i criminali. Quel che si capisce da Narcos è come questo problema del traffico sia partito. Come polizia, governo, politici, narcos e chi compra, siano tutti coinvolti, inclusi i vicinati che li proteggono. Ma è anche una serie da bing watching, 70% di quel che viene mostrato è vero (percentuale incredibile!) ma non è fatto per impartire una lezione, è fatto per goderlo.

Adesso vi siete fatti una cultura sul commercio di droga?

DG: Sì e penso che la politica di proibizione palesemente non funzioni, nessuno può dire il contrario. Solo legalizzare la marijuana anche non è una strada fattibile. La questione è più complicata va prima regolarizzata e poi legalizzata. È stato provato e messo in pratica in diversi paesi che consumano ma è più complicato farlo nei paesi che producono o funzionano come snodo del traffico. Credo però sia l’unica strada per far sì che un giorno possiamo approcciare questa questione come una di salute e non di sicurezza.

Conoscevate la fama dei personaggi che interpretate?

MP: Kiki nel 1985 finì sulla copertina di Times Magazine. Avevo 8 anni all’epoca e vidi la copertina. Non ricordavo bene la storia, mi sono molto documentato e mi sono reso conto che di lui non esistono interviste, solo racconti di seconda mano.

DG: Io ero davvero nervoso all’idea di interpretare questo personaggio, così ad un certo punto ho chiesto di poter vedere i primi 3 episodi della serie. La stavamo ancora girando eh, ma alcuni erano già fatti e finiti, così ho chiesto di vederli. La cosa mi ha molto sollevato perché il rischio c’è sempre in questi progetti e devi stare attento.

Nella lavorazione dei film può capitare che gli attori collaborino alle sceneggiature o abbiano margine d’improvvisazione. In una serie immagino sia più complicato visti i tempi e la centralità della sceneggiatura…

DG: In realtà credo sia l’opposto, c’è nelle serie un momento in cui tu conosci il personaggio meglio di tutti, perché i registi cambiano e gli sceneggiatori sono tanti, si dividono il lavoro e magari persone diverse scrivono i dialoghi per il medesimo personaggio. Aggiungici che in questo caso la sceneggiatura è in inglese, poi qualcuno la traduce in spagnolo e poi io la ritraduco un’altra volta nello spagnolo che parla il mio personaggio.

Da questo punto di vista questa serie è fatta davvero bene, ci sono tanti attori messicani che parlano ognuno lo spagnolo specifico del luogo da cui provengono i loro personaggi. Questi sono boss che si sono divisi il paese e quindi ci tengono a mantenere le cadenze del loro modo di parlare.

Oltre a questo ho anche partecipato alle decisioni su come le cose accadono ai personaggi, parlando e discutendone con gli sceneggiatori.

Le serie importanti, non americane, spesso sono criminali o hanno a che vedere con la droga. Secondo te c’è una ragione per le quale hanno questo tipo di presa?

MP: Se guardi la storia del cinema questa ha sempre riflesso quel che accadeva nel proprio tempo. Negli anni ‘50 o ‘60 in America la gente parlava della mafia o di Cosa Nostra, di persone che arrivavano a New York e creavano la mafia. Erano gli stessi fatti di cui si sentiva al telegiornale. In più i criminali sono spettacolari: c’è la necessaria segretezza che hanno le organizzazioni criminali, le soluzioni incredibili che applicano per risolvere i loro problemi e il fatto che sono persone che non vogliono un lavoro comune, bramano il brivido del far soldi illegalmente, cosa che è sempre disarmante per le persone normali. Il bello di Narcos è che non li giustifica ma ci aiuta a capirli e pone la domanda: “Tu cosa faresti?”

 

 

I film e le serie imperdibili