In occasione del debutto di ZeroZeroZero, la serie in 8 episodi tratta dall’omonimo libro di Roberto Saviano che sarà trasmessa su Sky Atlantic e Now TV a partire da venerdì 14 febbraio, abbiamo parlato di alcuni dei principali temi trattati dallo show con il dottor Francesco Forgione, Direttore della Cattedra “Falcone e Borsellino” presso l’Alta Scuola di Giustizia di Città del Messico, ex Presidente della Commissione Antimafia, autore della prima relazione parlamentare sulla ‘ndrangheta, oltre che di diversi testi-inchiesta, e co-autore ed attore dello spettacolo teatrale Mala’drine, che racconta e analizza il fenomeno della ‘ndrangheta dalle sue origini ai giorni nostri.

Il dottor Forgione è peraltro anche citato nel libro di Saviano come testimone, in occasione di un corteo antimafia a Vibo Valentia nel 2007, di una vicenda legata a Bruno Fuduli.

Dottor Forgione, quanto è importante raccontare il crimine? Quale impatto pensa possa avere sul grande pubblico la decisione di farlo con mezzi non necessariamente convenzionali come una serie televisiva e quali rischi si corrono quando si sceglie di parlare di criminalità, senza necessariamente raccontare anche la storia di chi la combatte?

È importante raccontare il crimine, sempre, soprattutto quello mafioso. Le mafie, come tutte le associazioni segrete, tendono a negarsi nella loro esistenza. La ‘ndrangheta in particolare è stata poco raccontata, ci sono pochissimi film che ne hanno parlato come Anime Nere, che è il più famoso, e c’era anche poca letteratura, poca saggistica a riguardo. Fino a metà degli anni Novanta i libri sul tema erano quelli di Enzo Ciconte, di Filippo Veltri (N.D.A: e Oltre la cupola dello stesso Forgione e Paolo Mondani), che hanno aperto la strada agli altri. Sia per la struttura familiare, sia per quella organizzativa, la ‘ndrangheta ha sempre scelto un profilo inabissato, non ha mai sfidato lo Stato, non si è mai resa responsabile – tranne in alcuni casi – di omicidi eclatanti, non ha ucciso giornalisti e parroci ed ha ucciso pochi magistrati come Caccia a Torino, l’Avvocato Generale dello Stato Ferlaino, Scopelliti in Calabria. Non ha scelto una strategia della sfida, quanto di trattativa e di accordo con lo Stato. Si è fatta essa stessa Stato ed è quindi per questo che è importante raccontarla.

Il rischio dell’accettazione, della banalizzazione e dell’apologia del male è invece un dibattito storico, ma io credo che il male vada raccontato anche nelle sue forme più esasperate e che sia poi compito della società offrire gli strumenti di lettura del male e anche gli anticorpi per combatterlo. Se Genny Savastano diventa un simbolo per alcuni ragazzi, il problema non è la rappresentazione di un personaggio che nella realtà esiste, nella personificazione di decine e decine di capi e boss e anche di ragazzi che aspirano a diventare come lui, ma di come costruiamo anticorpi culturali e sociali tali da collocare nella marginalità la sua figura. Per educare, è bene rappresentare e rappresentare anche la violenza. È un dibattito che c’è stato anche sulla Shoah. Oggi è proprio il Giorno della Memoria (N.D.A: l’intervista si è tenuta proprio il 27 gennaio). “Rappresentarlo o non rappresentarlo? Farlo vedere o non farlo vedere?” Io penso che queste serie abbiano una funzione e che sia giusto anche far vedere solo i cosiddetti cattivi, perché il male non è buono. Certo, va detto anche che se noi oggi lo possiamo raccontare, utilizzando inchieste e storie, è perché queste ci vengono consegnate da chi il male lo contrasta.

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Uno dei protagonisti della serie, Edward Lynwood, interpretato da Gabriel Byrne, in una scena in cui parlando con la figlia del ruolo di intermediaria nell’acquisto di una partita di cocaina svolto dalla famiglia, dice: “Sai perché non perderemo soldi? Perché quello che facciamo fa girare l’economia mondiale“. È vero? Il narcotraffico fa girare l’economia mondiale?

Quando raccontiamo i circuiti criminali rimane sempre sullo sfondo, nella narrazione, l’altra faccia della dimensione criminale pura, cioè la normalità dei circuiti economico-finanziari che servono da veicolo per il denaro che si muove parallelamente alla droga e che vive in una dimensione assolutamente legale fatta di notai, professionisti, avvocati internazionalisti, banche, grandi finanziarie internazionali. È un tema che bisognerebbe affrontare, perché non si può – ad esempio – criminalizzare l’intero Messico, come paese, senza considerare che il più grande mercato di consumo di cocaina sono gli Stati Uniti, seguiti dall’Europa. Ciò non toglie che rappresentare questi circuiti è fondamentale, perché è impensabile che miliardi di euro o dollari si possano muovere nell’economia legale e nei circuiti economico-finanziari senza una rete di complicità e accettazione delle fonti di questa ricchezza.

Siamo a vent’anni dalla convenzione di Palermo* sulla lotta alla criminalità organizzata, ma sul piano economico-finanziario siamo molto arretrati, nonostante la legislazione italiana sia la più avanzata a livello mondiale, sia per normativa, che per l’intelligenza investigativa che, soprattutto, per il contrasto economico-patrimoniale.

In Sud America – ed in Messico in particolare – dove la corruzione investe tutti i livelli delle istituzioni, questo malcostume pone i cartelli della droga nelle condizioni di controllare interi apparati dello Stato, polizieschi, investigativi e della giustizia, quindi rappresentare questo mondo è fondamentale anche per mettere a nudo tutte le ipocrisie che esistono sul tema del narcotraffico, di cui la più grande è continuare con le politiche proibizionistiche che fino ad ora sono state totalmente fallimentari.

In una delle prime scene degli episodi mostrati in anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia si vede, in Calabria, una processione religiosa, in cui gli abitanti del luogo rendono omaggio a Stefano (Giuseppe De Domenico), il nipote del boss Don Minu (Adriano Chiaramida), il che ci porta ad introdurre il concetto di “consenso sociale alla criminalità organizzata”. Lei pensa che il tema sia ancora attuale?

Le mafie senza consenso sociale sarebbero normali forme di criminalità non organizzata, una mafia è tale perché ha il controllo del territorio, senza un proprio territorio una cosca non esiste ed una cosca esiste nella sua dimensione internazionale se ha un territorio che la legittima nel riconoscimento di un’autorità superiore, o parallela allo Stato, in quel territorio. Questa è la fonte di tutto. La ‘ndrangheta ha una proiezione ed una colonizzazione globale (N.D.A.: espressione coniata in questa accezione dallo stesso Forgione nella sua relazione parlamentare sulla ‘ndrangheta), con una testa strategica fermamente ancorata in Calabria. Il consenso è quindi un elemento costitutivo di qualunque forma di criminalità organizzata. A questo proposito, esiste un’intercettazione interessante – che riguarda una cosca di Palermo – in cui un boss, Nino Rotolo, in seguito ad una serie di atti di violenza a fine di estorsione, dice al suo braccio destro di stare attento, perché c’è la crisi e loro hanno bisogno del rispetto, non della paura della gente.

Tornando alla scena di cui sopra, e riflettendo anche sul personaggio del sergente Manuel Contreras (Harod Torres), che dal promo della serie scopriamo essere un fervente devoto, come si spiega il legame tra criminalità e religione?

La ‘ndrangheta ha come legame identitario un rapporto molto forte con Michele Arcangelo, che è il suo santo protettore, oltre ad essere ironicamente anche quello della Polizia di Stato, mentre in Messico il rapporto con la religione si nutre della relazione con dei santi informali, come la Santa Muerte e Jesús Malverde, per tenere fermo un punto di identificazione con gli strati popolari più poveri, che hanno un forte legame con Dio. Per quanto concerne il nostro paese, per fare un esempio concreto, Provenzano usava la Bibbia per costruire i suoi codici di comunicazione con gli altri boss durante la sua latitanza. Considerandosi uomini d’onore, che vivono una dimensione interna, ma estranea alla società, queste persone non riconoscono la giustizia terrena, ma solo quella divina, il che precostituisce un alibi per non sottostare alla giustizia dello Stato, anteponendo ad esso l’idea di poter essere giudicati solo da Dio.

In Messico, i rapporti con consenso sociale e religione sono altrettanto forti. Se uno cerca su YouTube le immagini del nuovo cartello Jalisco-Nueva Generacion, trova filmati ufficiali prodotti da loro, conferenze stampa e video di gruppi armati che arrivano con i SUV nei villaggi e distribuiscono pane, pasta e pannolini per i bambini e dicono: “Questi li manda il capo,” facendosi carico della loro condizione. In quel momento, per chi non ha niente – perché lo Stato non esiste e in intere aree e comunità del Messico lo Stato non c’è, come non c’è polizia, caserma o giustizia – quella non diventa solo un’autorità da riconoscere, ma anche l’unica protezione possibile. I cartelli si nutrono di questo e la “politica della mano dura“, come è stata chiamata la militarizzazione del conflitto contro i narcos voluta dagli Stati Uniti e portata avanti dai governi messicani dal 2006 in poi, non ha aiutato, perché ha consegnato migliaia di persone nelle mani dei cartelli a fronte della corruzione degli apparati dello Stato, delle forze di polizia e dell’esercito, che non sono riusciti a costruire una risposta sociale in grado di sottrarre queste persone al controllo dei cartelli. L’assenza di politiche pubbliche, lavoro ed occupazione li ha così portati a schierarsi con chi offriva un’alternativa. Persino la corruzione delle forze di polizia in Messico esiste a fronte di salari di poche centinaia di dollari, perché per i cartelli diventa facilissimo corromperli.

In Messico c’è poi un problema drammatico, che è l’accettazione di una vita scandita dalla violenza come un fatto normale, al quale ci si adegua. In questo paese, forse persino più accentuata che nel caso dei colombiani dei tempi di Medellín e di Cali, si fa un largo uso simbolico della violenza, in cui la sua esibizione ha sia un fine terroristico che di produzione del consenso attraverso la paura, che impone al popolo da che parte stare per evitare lo stesso destino.

*La Convenzione e delle Nazioni Unite, sottoscritta nel corso della Conferenza di Palermo (12-15 dicembre 2000), ebbe lo scopo di promuovere la cooperazione per prevenire e combattere il crimine organizzato transnazionale in maniera più efficace.

ZeroZeroZero

 

ZeroZeroZero, tratta dal romanzo di Roberto Saviano, arriva su Sky Atlantic e Now Tv il 14 febbraio – scopri di più

ZeroZeroZero è creata da Stefano Sollima e dagli head writers Leonardo Fasoli e Mauricio Katz, basata sul trattamento degli stessi Fasoli e Sollima con Stefano Bises e Roberto SavianoMax Hurwitz e Maddalena Ravagli completano il team di scrittura. Ad affiancare Stefano Sollima alla regia Pablo Trapero e Janus Metz.

La serie vanta un cast internazionale composto da Andrea Riseborough, Dane DeHaan, Gabriel Byrne, Giuseppe De Domenico, Adriano Chiaramida, Harold Torres, Tcheky Karyo e Francesco Colella.

La sinossi ufficiale:

La serie segue il viaggio di un carico di cocaina, dal momento in cui un potente clan della ‘Ndrangheta decide di acquistarlo fino a quando viene consegnato e pagato.
Attraverso le storie dei suoi personaggi, ZeroZeroZero getta luce sui meccanismi con cui l’economia illegale diventa parte di quella legale e su come entrambe siano collegate a una spietata logica di potere e controllo che influenza le vite e le relazioni delle persone: i cartelli messicani che gestiscono la produzione di droga, le organizzazioni criminali italiane che ne amministrano la distribuzione in tutto il mondo e le compagnie americane che, al di sopra di ogni sospetto, controllano la quantità apparentemente infinita di denaro coinvolta in questo giro di affari. Un’epica lotta per il potere si scatena coinvolgendo tutti i livelli di questa gigantesca piramide criminale, dallo spacciatore all’angolo della strada fino al più potente boss della malavita organizzata internazionale: i loro introiti e le loro stesse vite sono in pericolo.

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