Immaginate un barattolo di miele: dolce, dorato, brillante, investito dalla luce del sole. Ora versatene completamente il contenuto su una lapide, lasciando che il contenuto scivoli lungo la fredda pietra, giù giù fino a incontrare le margherite che crescono alla base. La vita e la morte che si incontrano, la prima sarà meno dolce, la seconda farà un po’ meno paura, e forse ci sarà il tempo di un sorriso. Questa è l’immagine che meglio potrebbe riassumere tutto il fascino di Pushing Daisies, la sfortunata serie di Bryan Fuller andata in onda sulla ABC tra il 2007 e il 2009, pluripremiata dalla critica, snobbata dal pubblico, cancellata troppo presto. La tragicamente romantica vicenda di un pasticcere che deve convivere con una maledizione, l’impossibile e fiabesca storia con l’amore ritrovato della sua infanzia, il tutto condito con un po’ di giallo e più ispirazioni di quante sia possibile riassumere.

“The facts were these…” (frase ricorrente del narratore della serie)

Il giovane Ned scopre da bambino di possedere un dono inquietante: è in grado di riportare in vita i morti (persone, animali, vegetali) con il semplice tocco. La felicità per aver ricondotto a sé il proprio cane, investito da un camion, viene però presto cancellata da due scoperte: la prima, se l’essere riportato in vita viene toccato una seconda volta muore per sempre, e la seconda, se l’essere resuscitato non viene toccato ancora entro un minuto, allora per compensazione qualcuno nelle immediate vicinanze perderà la vita. A farne le spese, in un lontano giorno d’infanzia del protagonista, fu il padre della sua vicina di casa, la piccola Chuck.

Molti anni dopo il fabbricatorte Ned (Lee Pace) collabora stabilmente con il detective Emerson Cod (Chi McBride), riportando in vita per lui le vittime, generalmente ben felici di fornire il nome del loro assassino rendendo così decisamente più semplice il lavoro dell’investigatore. L’equilibrio si spezza quando la vittima in questione è un’ormai cresciuta Chuck (Anna Friel). Ned non ce la fa proprio a rimetterla a dormire per sempre dopo averla risvegliata, ma a dividere i due c’è il piccolo particolare della maledizione per la quale è impossibile anche tenersi per mano.

Bryan Fuller sembra corteggiare l’idea della morte in ogni sua opera. Lo faceva nel 2003 con Dead Like Me, di cui Pushing Daisies avrebbe dovuto rappresentare, secondo un’idea iniziale poi modificata, uno spin-off. Lo fa oggi in Hannibal: il gustoso thriller della NBC è molto lontano dallo stile più fiabesco e sognante di quello della serie del 2007, ma mantiene intatta l’idea di un fortissimo lavoro sul visual style come contorno al materiale narrativo, un sapore così forte che in più di un’occasione sovrasta quello piatto principale. Nei ventuno episodi complessivi dell’acclamato Pushing Daisies – la serie ha vinto tra gli altri riconoscimenti sette Emmy – l’idea della morte e il fantasma della scomparsa vengono allora esorcizzati, catturati e piegati agli schemi di una inusuale commedia romantica.

Inusuale perché, oltre alla premessa, le vicende sono tanto assurde quanto l’ambiente in cui sono calate e raccontate. La storia ruota sempre intorno all’idea della morte, ma tutto il resto del mondo, personaggi e ambiente in primis, viene costruito per contraddire e combattere questo tema. I colori, dagli abiti alle pareti, sono sgargianti e sembrano usciti da quelli di un musical degli anni ’50, le scenografie lavorano su simmetrie e motivi ricorrenti, i personaggi hanno nomi, caratteristiche e storie improbabili. In pratica l’intero comparto tecnico, compresa la regia, lavora per costruire l’idea di un mondo in cui tutto è possibile, tra finzione e sogno, in cui la bellezza di una fiaba in blue screen può in un momento esplodere – un interno che sembra ricostruire un alveare, un momento musical improvvisato, un veicolo assurdamente vecchio – realizzando qualcosa di speciale. Tutto è leggero, dolce e sospeso, come due persone innamorate che si scambiano un bacio attraverso la pellicola trasparente (forse il momento più iconico della serie).

Pushing Daisies non inventa nulla, ma è delizioso il modo in cui fonde idealmente la visione di Tim Burton, soprattutto quello di Big Fish che filtrava la banalità e l’orrore del mondo attraverso la magia del racconto, con la fiaba metropolitana di Il fantastico mondo di Amélie e un candore romantico che in qualunque altra situazione risulterebbe vecchio di decenni, ma che qui grazie a tutto il resto funziona e coinvolge. Salvo i colpevoli delle trame episodiche, che girano sempre intorno ad un delitto da risolvere, non esistono personaggi negativi nella serie, e quelli che in altri contesti forse lo sarebbero stati, come la cameriera Olive Snook (Kristin Chenoweth) innamorata di Ned, o le zie di Chuck Vivian e Lily Charles (Ellen Green e Swoosie Kurtz), sono invece adorabili quanto i protagonisti.

Ottime le musiche, soprattutto un tema principale che sarà difficile togliersi dalla mente, e il cast, con Lee Pace che tuttavia avrebbe dovuto attendere molti anni, e ruoli molto diversi, prima di diventare un volto riconoscibile (anche sotto tutto il trucco nei Guardiani della Galassia) oggi protagonista di Halt and Catch Fire. Malgrado un finale di serie che lascia in sospeso molte situazioni, se volete approfondire la carriera di autore televisivo di Bryan Fuller, se volete recuperare una delle serie più rimpiante di sempre (recentemente ha vinto una competizione indetta da Esquire sulle serie che più si vorrebbe veder “resuscitate”, per restare in tema), se semplicemente avete voglia di un sorriso, Pushing Daisies è pronto per essere colto.