Le parole di Stefano Sardo, presidente dei 100autori, riguardo lo stato attuale dell’industria audiovisiva italiana che avevamo raccolto e pubblicato all’inizio del festival di Venezia hanno generato lungo tutta la manifestazione diverse reazioni. Alcuni esponenti dell’industria sono stati così gentili da volerci comunicare la volontà di rispondere alle idee, a qualche accusa e alle molte proposte di Stefano con visioni alle volte concordanti altre volte.

I 100autori come noto sono una grande associazione con molti iscritti ma di certo non l’unica.

Abbiamo quindi pensato di proporveli in questa maniera per macroargomenti, per capire meglio cosa pensi l’industria nel complesso (che in realtà è fatta di tante voci differenti di lavoratori differenti alle volte con esigenze differenti che spesso sono in accordo spesso no) e forse anche quali siano i cambiamenti che ci aspettano, quelli che tutti concordano essere necessari.

Le voci che abbiamo sentito sono quelle di Nicola De Angelis, produttore della serie Baby, di Callas & Onassis e di Un’Avventura (Fabula Pictures), Fosca Gallesio sceneggiatrice per la tv e co-creatrice di serie come Il tredicesimo apostolo e rappresentate di Writer Guild Italia (associazione di sceneggiatori italiani) e Riccardo Tozzi, produttore, presidente di Cattleya la più importante società di produzione italiana (Romanzo Criminale, Gomorra, Suburra, ZeroZeroZero).

LA DIFFICOLTA’ PER GLI SCENEGGIATORI DI ESSERE SHOWRUNNER ALL’AMERICANA

NDA: “Concordo con Stefano, bisogna fare una battaglia per avere lo showrunner in Italia, ma non concordo sulle modalità. Quello a cui Stefano fa riferimento non è l’head writer ma il creatore. Sono due figure molto diverse: il creatore è la persona che ha avuto l’idea della serie, l’head writer invece un senior tra gli sceneggiatori che la scrivono. Il creatore può anche scrivere la serie, oppure no. Shonda Rhimes ad esempio non scrive le sue serie, le crea e supervisiona”.

Ma non è una questione contrattuale?

NDA: “Come produttore ho a che fare con sceneggiatori e vedo che spesso desiderano avere più controllo, vogliono essere showrunner ma non hanno bene idea di cosa voglia dire. Lo showrunner è un produttore creativo, è qualcuno che sa fare il produttore che rischia il proprio capitale. E loro in linea di massima non vogliono questo. Arrivano e mi chiedono di essere showrunner, nel contratto io ce lo metto ma metto anche che se la serie va fuori budget poi mi ripagano loro, perché sono showrunner, e solitamente non firmano. Però questo è il ruolo, un executive producer con controllo creativo”.

RT: “Lo showrunner anche in America comincia a non sentirsi più, è un po’ una cosa ariosa e per come si è sviluppato il modello da noi lo showrunner alla fine è la casa di produzione. Come nella moda, la griffe la diamo noi. Del resto chi fa serie si è dotato di reparti proprio editoriali grossi che lavorano per questo. Non deve essere una cosa che sminuisce lo sceneggiatore”.

Lo stesso accade che non si parli mai degli sceneggiatori per i prodotti seriali italiani nonostante la loro centralità…

“Che le serie vivano più che altro di scrittura è sacrosanto ed è vero che sono sottoesposti. Noi viviamo di un’impostazione figlia del cinema d’autore in cui l’autore è il regista ed è sbagliato. Questo però non è un problema di contratti ma di comunicazione, noi ci stiamo lavorando ma è evidente che bisogna fare di più.
Quello che credo è nel bisogno di dare il giusto credito al creatore, che è un’altra cosa e mi pare giusto insisterci. Noi lo facciamo. Far cioè capire che c’è qualcuno che ha creato che non necessariamente è chi ha scritto (che pure ha fatto un gran lavoro ma è diverso)”.

FG: “A WGI interessa prioritariamente il riconoscimento dell’ideazione del concept, il “created by”. Ad esempio ai nostri soci Leonardo Valenti e Jean Ludwigg che hanno ideato la serie Il segreto dell’acqua per Canale5 non interessa essere showrunner, ovvero occuparsi anche della produzione esecutiva della serie, solo avere un giusto ruolo di supervisione nelle varie fasi produttive. Lo showrunner americano è la persona incaricata della vision che dà identità al prodotto. Ci deve essere un capo, uno che prende le decisioni difficili. Se la persona più adatta è un regista come Sollima per Gomorra, va benissimo”.

1993GLI SCENEGGIATORI NON PARTECIPANO AGLI UTILI DERIVANTI DALLE VENDITE DEI LORO PRODOTTI E QUESTO NON LI STIMOLA A CREARE QUALCOSA IN GRADO DI GIRARE

RT: “Sono totalmente d’accordo con la battaglia di Stefano Sardo sul fronte della remunerazione. Io credo che gli sceneggiatori debbano partecipare agli utili”

Ma dagli sfruttamenti internazionali e dalle vendite anche?

RT: “Tutti. Dagli utili in generale. E lo credo perché se come ora non ne sono parte devono lavorare molto e quindi peggio di come potrebbero. Se invece potessero concentrarsi su un lavoro, sapendo che poi la remunerazione sarà a livello, ne beneficerebbe la qualità. Quindi io ne faccio proprio una questione qualitativa, non perché gli facciamo un favore ma perché fa bene a tutti”.

Allora se loro lo voglio e voi (produttori) lo volete è fatta, no?

RT: “Io credo che non arriverà subito un inquadramento nella forma di un contratto standard, credo che passeremo per delle formule che inizieremo ad usare ma sicuramente vogliamo farlo e siamo d’accordo. Almeno noi di Cattleya”.

FG: “Sulla questione della partecipazione degli autori alle vendite estere siamo naturalmente tutti d’accordo. È importante come battaglia, ma abbiamo un problema più grave e prioritario, che riguarda la base dei professionisti, quelli che, per diverse ragioni, sono in condizioni precarie e fragili, e hanno quindi un basso potere di contrattazione (spesso non hanno nemmeno un agente). In WGI abbiamo avuto notizia di molte pratiche poco corrette, ai limiti dello sfruttamento, con pagamenti in ritardo di mesi e a volte anche in nero.
Gli autori che hanno la titolarità per avanzare pretese addirittura sulle vendite estere, in Italia si contano sulle dita di una mano, forse due… e i migliori stanno già lavorando per serie straniere. Noi ci preoccupiamo dei fondamenti del sistema”.

Sardo dice però che la battaglia per le vendite estere è un discorso a parte e anzi vuole combattere questa battaglia per tutti e ad oggi sembra che il lavoro ci sia…

FG: “Il rischio è quello della bolla… Con l’arrivo delle piattaforma e l’aumento della connettività globale aumenta anche la mole dei contenuti. Ma è una sensazione creata ad arte per il pubblico. Il lavoro, specialmente locale, non cresce in proporzione. La serialità è un sistema di alimentazione del desiderio dello spettatore, c’è un sovraccarico di contenuti e la scelta per l’audience appare virtualmente infinita. Tuttavia quelli che ci guadagnano davvero sono sempre i pochi, i big OTT. Quindi è vero che ci sono più ore di prodotto, ma proprio perchè il prodotto aumenta, il costo del lavoro si abbassa, soprattutto nei reparti creativi, dove per motivi di deregulation c’è meno tutela sindacale”.

NDA: “Credo sia il creatore quello a dover godere dei profitti derivanti dal successo e dalla circolazione della sua creazione, non l’head writer. Poi concordo che da noi gli head writer sono pagati poco eh, ma non concordo che debbano partecipare a quei proventi”.

1993LA DIFFICOLTA’ DELLA SERIALITA’ ITALIANA A LAVORARE SU PRODOTTI ORIGINALI CHE NON SIANO DEI BRAND O NON VENGANO DA LIBRI

NDA: “La vera battaglia è sull’originalità! Dice bene Stefano quando si chiede che succederà quando finiremo i nostri brand se non siamo in grado di creare cose originali!”.

RT: “Le creazioni originali, anche all’estero, tendono a venire dal family drama che è un ambito in cui siamo carenti da sempre, anche al cinema. Per il genere solitamente ci si appoggia a qualcosa che già esiste (sono innumerevoli le serie americane basate su libri). Invece il family drama solitamente è il terreno della creazione originale e noi non lo abbiamo, lo facciamo poco perché quelle storie storicamente le abbiamo trattate con la commedia.
Ci dobbiamo concentrare su quello ma vedo che senza esserci accordati un po’ tutti stiamo iniziando a farlo. Io ad esempio nell’ultimo anno ne ho ricevuti un po’ tra le molte proposte che arrivano e forse un paio li facciamo”

È vero che gli head writer in grado di gestire una writer’s room alla fine sono pochi in Italia?

RT: “Su questo non concordo. Era così fino a poco tempo fa, ma sta cambiando”.