La prima stagione di We Are Who We Are finisce stasera.

Si chiude con l’ultima puntata su Sky Atlantic alle 21.15 questa parte di storia di Fraser e dei personaggi che ha incontrato nella base americana o nei dintorni di Chioggia.

Abbiamo sentito Luca Guadagnino per poter parlare con lui di quel che è andato in onda, di come abbia realizzato la clamorosa sequenza della quarta puntata e come rifugga i cliché, per capire il suo metodo di lavoro, le idee e gli obiettivi.

Ti piace organizzare e concepire sequenze complicate da realizzare, quelle che richiedono pianificazione e una precisione maggiore della media per riuscire?

“Non capisco se me lo chiedi perché non hai visto i miei film o per altre ragioni…”

Te lo chiedo perché voglio arrivare ad un’altra domanda…

“Per me girare è faticoso e non mi fa troppa differenza fare un campo e controcampo oppure una sequenza complessa. Poi è chiaro che se fai un film con una certa cognizione di causa ti poni anche in una dimensione in cui stai sfidando le parti più faticose della messa in scena. Ad esempio già se hai più di due personaggi nello stesso momento in scena la difficoltà della lavorazione aumenta, e ancora di più se devi anche coordinare i movimenti di quadro o incrociare la realtà con la finzione in quella stessa scena”

È stato complicato realizzare la sequenza della festa che segue il matrimonio nell’episodio 3, oppure era il quarto non ricordo?

“Era il quarto. Quello è uno snodo drammaturgico e corale dove credo e spero che siamo riusciti a focalizzare e visualizzare le dinamiche non solo di Fraser e Caitlin. Ovviamente è una sequenza complicata, perché non puoi perdere di vista il piano dell’opera che non è solo la sceneggiatura ma anche i dettagli di messa in scena e del contesto”.

Quanto ci è voluto per realizzarla?

“Due giorni”

we are who we are mallRichiede una grande preparazione prima o sei il tipo di regista che preferisce farsi contagiare da quel che accade mentre si gira?

“Se per preparazione intendi la cura assoluta di ogni elemento sì, la faccio. Se invece pensi all’uso di storyboard no, perché non li uso. Se consideri la preparazione per quella scena ci sono voluti mesi per costruire il comportamento dei personaggi in quel contesto e la fenomenologia che gli sta intorno, cioè che cosa fanno, cosa ascoltano, cosa usano e come lo toccano”.

Quindi alla fine è molto costruita…

“Anche il più brutto dei film è una qualcosa di costruito”

Sì certo ma in alcuni film ci si appoggia molto a quel che succede lì per lì, all’impronta, in altri invece il risultato è frutto dell’esecuzione precisa di qualcosa di provato e pianificato

“Io non ritengo che il regista sia un marionettista e, a parte esempi eccellenti come Hitchcock, penso che quello sia un metodo che porta a cattivi risultati. Io mi percepisco più come una sorta di ostetrica o un maieuta che fa uscire fuori dall’attore e dalla loro interazione quel che loro stessi stanno cercando”.

Il risultato è che nonostante in quella sequenza non si veda nulla di più esplicito di quel che non vediamo già altrove, lo stesso c’è una potenza sessuale decisamente maggiore. Sapresti dire come mai?

“Dipende dallo sguardo di chi guarda (cioè il tuo) e dal punto di vista di chi gira (cioè il mio). Io poi per farla mi pongo solo domande pratiche: a quell’età, venendo da quel posto, essendoci lì quella temperatura e quella quantità di alcol che hanno bevuto cosa accade? Ragionando piano piano si riesce a cercare un comportamento che sia il più accurato possibile. Così fai sì che sia sempre la storia a condurre. È chiaro che se prendi il momento in cui Danny si fa sedurre dalle due ragazze la conseguenza non è che chiacchierano, dovrà scopare e lo farà ovviamente da nudo. Solo il cattivo cinema fatto con cattivi attori prevede che non ci si spogli perché “gratuito”. Invece è proprio rimanere vestiti in quelle situazioni ad essere gratuito”.

Tuttavia tu fai anche l’opposto, fai spogliare un personaggio quando non è la cosa più logica ma serve uno scopo, cioè quando Chloë Sevigny si cambia d’abito davanti a tutti i suoi sottoposti.

“Se fai uno scambio con la serie, accettandola, apprezzi il fatto che quel gesto del colonnello Wilson corrisponda al suo senso pratico e ad un livello di manipolazione del contesto tramite il suo narcisismo. Di fatto ci sono sempre modi per comandare, importi e trascendere sul reale degli altri facendo in modo che il tuo reale sia l’unico a contare. In quel caso specifico il colonnello Wilson usa il suo senso pratico e il corpo dell’essere militare in armonia con il proprio senso di superiorità. È cruciale sapere che ogni cosa va raccontata investigata e rappresentata con cura. Solo così eviti un cliché”.

we are who we are duoIl cinema però è pieno di film ottimi che sui cliché ci lavorano per arrivare altrove

“I cliché sono falsi, perché la verità del cliché non è l’assunto che emanano, la verità del cliché sta in chi li pronuncia. Chi lo enuncia non dice una mezza verità ma dice una verità completa su di sé, ovvero che è qualcuno a cui sta bene categorizzare una moltitudine come fosse una cosa sola. Io stesso sono vittima di diversi cliché, come quello che vuole che un uomo omosessuale cresciuto in un certo ambiente anni ‘80 abbia una passione per certe fisicità maschili. Sono consapevole di questo cliché e in qualche modo ne rido. Al contrario applicarlo alla tua visione del mondo è meno divertente”.

Diresti che We Are Who We Are racconta in definitiva di come la legge del corpo domini le nostre vite?

“È giusto e sensato rispetto a quel che penso. Credo che i corpi contino e il prisma attraverso il quale posso interpretare la realtà, ovvero il cinema, per me passa dai corpi”.

Sei il tipo di regista che ama guardare anche chi fa un cinema opposto al tuo?

“Io amo il cinema in modo talmente viscerale e profonda e spaziale che l’idea che mi possa piacere solo quel che mi somiglia la ritengo miserabile. Mi fa subito pensare ad un tinello e all’odore dei cavoli. Spesso vedo film in cui noto la magnificenza di idee che mi sembrano così sofisticate che io non avrei mai potute pensarle. È qualcosa che mi frustra e mi rende felice. Ad esempio quando vidi Philadelphia rimasi sgomento, perché non riuscivo a capire. Pur essendo investito da quel film non sistematizzavo il suo sistema di idee che mi pareva troppo sofisticato. Ma è lo stesso con Cronenberg e certi film di João Pedro Rodrigues o di Chantal Akerman: mi suscitano un sistema di meraviglie e di idee elusive. Di contro invece ho fatto l’errore di vedere un mio vecchio film pensando di poterlo guardare con un distacco ma non è così. Quando fai un film lo vedi così tante volte che lo introietti. È la maledizione dei registi, essere ricondotti sempre al processo per cui hanno fatto qualcosa e non godere del proprio lavoro”.

Pensi che vedersi arrivato ad un traguardo sia la fine della fase propulsiva di una carriera?

“Guarda: ho perso mio padre e il mio compagno e anche la serie sta finendo. Finisce tutto, non c’è la possibilità di pensare che i processi della tua vita ti portino alla pienezza e quindi a sentirti arrivato. Solo chi ha un ego ipertrofico o altre forme di trofismo può pensarsi in una dimensione di piena realizzazione”.